A cura di Veronica Salerio, gruppo Attivazione di comunità, coordinatrice area progetti territoriali Il Torpedone
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Abstract in easy to read
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Articolo
Mettere in contatto le persone con disabilità e la comunità territoriale, inserendo le persone all’interno di contesti cosiddetti “normali” (e quindi evitando, ad esempio, i corsi ad hoc dove incontrare solo altre persone con disabilità o fragilità) ci mette davanti ad un cambiamento sostanziale.
La persona con disabilità, in questo contesto, viene trattata come una qualunque persona: sostanzialmente, con normalità.
Normalità vuol dire che il corso o contesto che accoglie la persona con disabilità non ha le “protezioni” o attenzioni particolari, perché deve portare avanti il dato insegnamento a tutti i corsisti (che sia sportivo, artistico, informatico, culturale etc..) ; ciò comporta che la persona con disabilità deve essere messa nelle condizioni di partecipare senza sentirsi “indietro” o esclusa. Questo vuol dire anche che chi insegna o accoglie la persona nel corso/contesto comunitario deve essere messo in condizione di accogliere senza essere spaventato dalla disabilità.
Ciò significa avere un accompagnamento da parte dell’educatore/famiglia, che non sia un accompagnamento costante (se non è strettamente necessario), ma che sia una sorta di “inserimento” in cui l’educatore possa, prima di tutto spiegare e far conoscere la disabilità a chi accoglie (insegnante, formatore, allenatore,..) affinché possa capire meglio la persona inserita non per trattarla in modo diverso, ma per avere in mente quelle strategie da adottare affinché la persona con disabilità abbia la possibilità di sentirsi accolta.
Normalità vuol dire anche lavorare con i servizi e le famiglie affinché sia normale immaginare un utente o figlio/a con disabilità effettuare azioni autonome. Spostarsi, prendere mezzi, pagare, seguire un corso, interagire con persone in contesti esterni ai servizi.
Quello che può apparire facile, in realtà, è un cambiamento di paradigma e mentalità ed uno sforzo che viene richiesto in prima persona agli educatori dei servizi, abituati, non per responsabilità loro, a lavorare in contesti rigidi o semi-rigidi, per quanto riguarda attività o orari e, ancora di più, alle famiglie, di affidarsi e fidarsi di una comunità e un contesto libero e meno protetto.
Normalità significa anche che la persona con disabilità, al pari degli altri, deve avere la possibilità e la dignità di pagare per un servizio offerto dal territorio, che sia un corso, una formazione, un’attività.
Ciò non significa caricare le famiglie di un ulteriore peso economico, dove non sia possibile per scarsità finanziare, ma spostare la riflessione sulla ripartizione dei fondi istituzionali e progettuali legati alla disabilità ad un livello politico e strategico.
In questo senso, allora, ha senso interrogarsi sulla destinazione di una parte del cosiddetto budget di salute, che dovrebbe tenere conto di questi dati e di questi desideri e affrancarsi, sempre in maniera maggiore, dal solo inserimento in contesti “protetti” o servizi, ma destinare le proprie risorse anche al territorio.
Il budget di salute, in questo modo, assumerebbe sempre di più l’accezione di salute riportata negli ultimi aggiornamenti dell’OMS degli ultimi anni, che dicono che la salute è anche “la capacità di adattamento e di auto gestirsi di fronte alle sfide sociali, fisiche ed emotive”.